Negli anno 90 lo psicologo Kevin Dunbar voleva capire da dove nascono le rivoluzioni scientifiche e al posto di iniziare a consultare le biografie degli scienziati o intervistarli uno ad uno, utilizzò un approccio diverso, quasi “sovversivo”.
Dunbar aveva un problema: la scarsa memoria degli scienziati quando cercavano di ricordare l’origine delle loro scoperte. Si accorse infatti che i racconti risultavano troppo coerenti, come se ogni avvenimento accadesse in modo lineare. Inoltre erano molto incentrati sulla figura del singolo scienziato, che diventava così il solo “autore” dell’innovazione.
Decise allora di entrare in 4 diversi laboratori di biologia molecolare e posizionare una serie di telecamere che dovevano riprendere i ricercatori al lavoro 24 ore su 24.
Dunbar non era interessato alle scoperte in sé ma al modo in cui gli scienziati interagivano fra loro.
Il focus era sulle persone e la prima scoperta che fece fu paradossale.
Quando pensi ad un laboratorio di biologia immagini uno scienziato chino sul microscopio, chiuso nel suo ufficio che ad un certo punto esclama EUREKA e la scoperta rivoluzionaria compare come per magia.
Questo è il nostro immaginario collettivo e quello che i film ci hanno raccontato per decenni, ma Dunbar scopri che la realtà era molto diversa.
I ricercatori amavano ritrovarsi quotidianamente in alcuni spazi comuni dove ognuno condivideva i propri risultati, li discuteva, chiedeva consigli mentre sorseggiava un caffè o litigava con un collega per un errore sperimentale.
Contrariamente a quanto riferivano nei loro racconti, le idee più importanti venivano fuori non nell’isolamento ma durante questi momenti di confronto.
Il motivo era semplice, nel processo di condivisione e discussione i ricercatori:
- ricontestualizzano i vicoli ciechi in cui si trovavano
- consideravano i risultati da una prospettiva diversa
- ricevevano domande inaspettate che li spingevano a nuove ricerche
- rivalutavano i propri errori
- mettevano in discussione i principi da cui erano partiti.
L’origine dell’innovazione, il posto dove tutto nasceva non era quindi il microscopio ma la sala riunioni.
Come si crea la sala riunioni perfetta
Ora la domanda che segue è abbastanza scontata: come si costruisce questa “sala riunioni” così prolifica? Quali sono le caratteristiche fondamentali?
Prima di tutto deve essere un ambiente informale, in cui le idee possano “sbattere” fra loro liberamente.
Un posto in cui le persone si sentano al sicuro e a loro agio nel raccontare successi ed insuccessi, anche prestando il fianco al giudizio degli altri.
Dove ci sia il desiderio di conoscere il parere delle altre persone, nutrendo fiducia e rispetto nella professionalità dei propri colleghi. Un luogo quindi in cui le persone si possano confidare in maniera libera e appassionata.
Capisci bene che per creare una contesto del genere tutto quello che lo ostacola va rimosso: gerarchie che rendono i dialoghi inautentici, giudizi sulle persone e barriere tra i team.
Questo spazio può essere una community online dove i partecipanti dialogano e si ritrovano, oppure un luogo fisico: una sala relax, una caffetteria, un giardino all’aperto. L’importante è che ci sia il clima giusto, autenticità e dialogo informale.
La riunione del venerdì in Nethesis
Nella mia azienda ogni venerdì alle 12 ci ritroviamo nella nostra sala riunioni (che al momento è una stanza zoom) e l’ordine del giorno è deciso in maniera condivisa, ognuno racconta quello su cui ha lavorato, sta sperimentando o ha intenzione di cimentarsi in futuro. Tutti a turno sono spinti a parlare, tutti possono intervenire e fare domande e spesso si prendono decisioni condivise. Gli argomenti sono i più svariati: strategie commerciali, nuovi sviluppi dei prodotti, tecnologie, scelte aziendali e storie dalle nostre community.
La riunione del venerdì oltre alla nostra macchinetta del caffè sono gli ambienti che facilitano la circolazione delle idee e fanno scattare la scintilla per strofinamento.
Da chi è composto il team migliore?
Dunbar scopri anche un’altra cosa molto importante. I laboratori che riuscivano a trasformare le scoperte in conoscenza condividevano una caratteristica comune. Avevano al loro interno non solo scienziati ultra specializzati ma anche generalisti con background molto diversi fra loro e una serie molto ampia di conoscenze di base.
Avendo esperienze che venivano da ambiti diversi, per poter dialogare e confrontare le proprie idee utilizzavano una strategia molto semplice: il pensiero analogico
Le riunioni tra questi team di scienziati erano la fiera delle analogie, ogni 5 minuti qualcuno ne coniava una con esempi completamente fuori dall’ambito della biologia. Per ogni nuovo tema era necessario trovare una lingua comune, l’unico modo per essere alla pari e giocare in un campo da calcio delle stesse dimensioni.
Cosa ci insegna tutto questo?
A mio parere due cose fondamentali.
La prima è che servono persone, che io chiamo Architetti Sociali, che siano in grado di:
- allestire un ambiente informale (sala riunione) che aiuti la libera collisione delle idee
- facilitare il dialogo tra un team di persone più eterogeneo possibile, utilizzando le analogie come linguaggio comune
Il secondo insegnamento invece è questo.
Ancora oggi nel XXI secolo, con tutte le tecnologie che abbiamo a disposizione, lo strumento migliore per creare innovazione è ancora lo stesso (ed è vecchio come il mondo) un gruppo di persone molto diverse fra loro, riunite intorno ad un tavolo che confrontano in maniera appassionata le proprie idee.